Non ho mai avuto paura del buio. Ma il buio non mi è mai piaciuto. La prima volta che ho incontrato un blackout avevo otto anni. Era estate e di colpo il lampadario in cucina, con un rumore sordo, si spense e mi lasciò con il cucchiaio di minestra sollevato in alto. Mio padre mi disse di venire sul balcone per vedere le stelle perché: “Sono più grandi e luminose”. E, in effetti, così era. Non erano grandi come quelle dipinte da Van Gogh. Ma, sopra la mia testa, apparivano più chiare e nitide. Vincitrici per qualche tempo della barriera della corrente elettrica.
Ma non era la mia città. Non c’erano più le geometrie che conoscevo. Era un’altra città. Era un nero indistinto privo di confini e di orli. Come quando si usano gli acquarelli e i contorni diventano larghi e il colore invade la carta porosa.
Non ho mai avuto paura del buio. Ma il buio non mi è mai piaciuto. Forse per questo ho sempre pensato che la più bella scena iniziale di un film è quella di Manhattan, con la sua ode alla città puntellata dal suono del clarinetto e dalle insegne luminose che si accendono e si spengono. Perché la luce artificiale ha inventato una nuova città, ridefinendo il dentro e il fuori delle cose.
La luce artificiale è invadente. A dicembre addirittura egocentrica. Avvolge con rivoli azzurri gli edifici che circondano piazza Loggia. Si abbarbica, con fili che brillano impazziti dei colori primari, ai muri delle villette in via Monte Nero e in via Rossetti, o difendendo qualche finestra all’ultimo piano di un condominio del quartiere Perlasca. Anche degli alberi si appropria, in via XX Settembre e in piazza del Vescovato. Fino a sostituirne le foglie, fino a oscurare le stelle.
La luce artificiale è timida. Cerca di bucare con intere file di lampioni la barriera di nebbia che a novembre riempie via Tartaglia, ottenendo solo fuochi appannati. E ha poca fiducia in sé, quando d’estate il rosso e il verde dei semafori paiono accecati e incapaci di competere con la luce del sole e ci si chiede, in via Leonardo da Vinci, se si sta attraversando la strada con il colore giusto.
Dal basso, dalla strada, la luce artificiale mette delle etichette. Vecchie e nuove, in perenne sostituzione, sfavillanti o a stento accese, le insegne dei negozi modellano via S. Faustino, Borgo Trento, Via Delle Battaglie, i portici X Giornate.
Dall’alto, dal castello, la luce artificiale dà forma alla storia, scolpendo la cupola verde rame del duomo e i mattoni in pietra della Torre della Pallata. Dà forma al presente, marcando il rosso delle tegole dei tetti del centro storico che cedono il posto al vetro e al ferro della periferia.
La luce artificiale fa trapelare il quotidiano. Perché porta dentro le case. In via Mazzini, via Dante, via Crocefissa di Rose, via Masaccio, luci chiare, bianche, fredde, calde, gialle, rosse, dirette, velate fanno intravvedere frammenti di librerie, di lampadari, di tavoli, di televisioni, di sedie, di corpi. Frammenti di vita.
Non potrei immaginare una città senza luci e queste sono le luci della mia città. E le tue? Di quali luci brilla la tua città?