C’è chi ama scoprire le città dall’alto. Con la testa incollata al finestrino dell’aereo, a capofitto tra le nuvole che si diradano, le orecchie che si tappano per la discesa, e la città che lentamente affiora. Cercando, di giorno, di vederne il nascere come in una cartolina: la Tokyo Tower, il Big Ben, le guglie del Cremlino, il ponte di Brooklyn. Cercando, di notte, di decifrare la forma di quella grande macchia luminosa che appare sotto gli occhi, dove non esistono asfalto, acciaio, carne, acqua, vetro, alberi ma solo i colori dell’elettricità. O con i piedi ben piantati a terra, ma dall’alto di una cattedrale, di una torre, da un un braccialetto immerso nel cielo, dai torrioni di un castello su un colle.
L’avrete capito. Io le città preferisco conoscerle dal basso. Seguendo i suoni delle porte o infilandomi in cortili nascosti. Quando sono avvolto in un vicolo, in una piazza, quando sono seduto ad un bar o sono in attesa di un autobus, allora guardo in alto. E li vedo comparire rassicuranti. I balconi. Le mie bussole personali.
I balconi mi piacciono perché si offrono. Si spingono verso l’esterno, verso il mondo, indirizzano lo sguardo e regalano un appiglio sicuro.
Quando in una città mi sento solo, guardo un balcone. Se ci vedo una donna che guarda verso il basso mi sento meno solo. Se il balcone è addirittura una terrazza, di quelle ampie, dove la sera quando c’è bel tempo si mangia fuori e sembra di essere in vacanza, divento anche allegro.
I balconi sono estroversi. E parlano. Difficilmente un balcone rimane in silenzio. Un balcone parla della vita della città. Perché sente la città sul suo cemento, sulla sua pietra, sul ferro della sua ringhiera, sui mattoni di coccio del suo pavimento. I balconi raccontano il presente della città, la osservano e la conoscono quando è febbricitante di sole, quando è invasa dalla nebbia, quando è spazzata dal vento, quando è luccicante di brina.
I balconi parlano delle piazze, di piazza Loggia, piazza del Duomo, piazza Vittoria, dei loro colori, dei loro suoni, di un’estate piena di musica, di chi sosta, di chi cammina, di chi manifesta; parlano dei viali che segnano il perimetro del centro, di via Tartaglia, di via dei Mille, di via XX Settembre, assonnati nelle domeniche estive, sferzati dai clacson della automobili durante un qualsiasi giorno d’inverno; parlano delle traiettorie saltellanti delle ruote dei ciclisti sui sanpietrini di via Trieste e di corso Magenta; parlano le voci del mondo che si alzano da via San Faustino e da via delle Battaglie; parlano, una sopra l’altro, del movimento dei corpi delle persone negli uffici di vetro a Brescia Due.
I balconi sono estroversi. E parlano. Della vita delle persone. E riescono a nascondere poco. (Anche quelli interni o quelli con alte fioriere che impediscono di guardare dentro le case).
I balconi parlano delle nostre abitudini, dei nostri gusti, dei nostri difetti. Dicono se amiamo le piante e i fiori; se siamo ordinati o accumulatori, se abbiamo figli, o se ci occupiamo dei figli dei nostri figli.
Sui balconi si muovono voci, corpi, emozioni. Sui balconi si parla: da un balcone all’altro, con la voce che rimbalza gommosa come una pallina da tennis; si parla verso il basso con la voce che può riempire un’intera strada; si parla al telefono con la voce che si perde in racconti lunghi come un fiume. Sui balconi si cammina, si litiga, si ride, si balla, si piange, si gioca, si ascolta la musica, si osserva in silenzio.
Con gioia, tristezza, ad alta voce, sommessamente, rabbiosamente, con noia, risa, grida, gentilmente, tenacemente: come parla il tuo balcone?