articoli del blog di Moving Culture

Una questione di scarpe (e di passi)

 

Se non avessi scritto guide di viaggio avrei venduto scarpe. Mi sono sempre piaciute le scarpe. Raccontano di noi, del nostro mondo, del posto dove viviamo, dei posti dove siamo stati. Ci fanno conoscere il mondo.

Ho scritto da qualche altra parte che le città vanno scoperte dal basso. Aggiungo: ben calati nelle proprie scarpe. Le scarpe connettono al mondo e sono intimamente legate al loro proprietario. Portano l’impronta, il calco di chi le ha indossate.
Ma sono adattabili. Passano da fratello a fratello. Da sorella a sorella. Compagne di vitaE di morte. Nell’antica Cina tutte le scarpe dell’imperatore defunto venivano bruciate. Fedeli fino all’ultimo.
Le scarpe sono sorprendenti. Tanto da diventare edibili. Per fame, come ha fatto Chaplin nella Febbre dell’oro. O per tenere fede ad una scommesso persa, come nel caso del regista Herzog che ha fatto bollire una scarpa cinque ore per poi mangiarsela.
Le scarpe possono essere addirittura pericolose, potenzialmente mortali (per il portafoglio). Come insegnano armadi senza pace da cui fuoriescono suole, tacchi, tacchetti, cinturini, punte, stringhe.

Mi sono sempre piaciute le scarpe e non ho mai amato troppo le mappe. Nelle mie guide ho sempre spinto i viaggiatori a diffidare delle mappe. E a seguire le proprie scarpe. Io ho sempre fatto così. Ho seguito le mie scarpe. Le mappe che, passo dopo passo, hanno costruito le mie scarpe.
Non ho mai amato troppo le mappe. E, ultimamente, non amo troppo tutti quegli strumenti, navigatori, gps, applicazioni, che indicano il modo più veloce, meno veloce, più turistico, più rilassante, meno convenzionale per arrivare in un posto.
Ma, quelli che non ho mai sopportato, sono i contapassi. I controllori del lavoro delle scarpe. Perché viaggiare in fondo è questo: una questione di scarpe (e di passi).

I passi raccontano la città meglio di una mappa, meglio di una qualsiasi applicazione. Perché si portano addosso, attaccati alle suole, la pelle della città.
Passi che prendono il ritmo sobbalzante delle suole gommose; passi legnosi che a fatica si staccano dalla suola di una scarpa nuova; passi che feriscono determinati il cemento; passi su tacchi stretti e sicuri di sé, che corrono veloci in perfetto equilibrio, tenendo tutti a distanza; passi esitanti che slittano sulla brina invernale; passi frenetici che conducono in posti in cui si vorrebbe già essere; passi un po’ dadaisti, che non conducono da nessuna parte. E inseguono vicoli ciechi. Passi che, uno dopo l’altro, disegnano città diverse.

E allora, 10, 100, 1000 passi. Da piazza Loggia all’Ospedale. Anarchici, percorrono a zig-zag l’asfalto, la crosta dei marciapiedi che si fonde dolcemente con la strada. Per diventare più disciplinati in via Monte Suello. Riconoscendo l’autorità della strada. Fino ad attraversare senza esitazione l’ingresso dell’Ospedale. O abbandonare la fretta, ritirandosi su se stessi. Perché si è capito di non voler, non poter arrivare.

10, 100, 1000 passi. Dall’Ospedale al parco Castelli. Passi che lasciano il rumore di viale Europa per immergersi nella quiete di via Schivardi, via Ambaraga, via S. Antonio. Passi a cui non interessa arrivare in un posto. Passi mutanti, che si trasformano in salti, saltelli, corse. Perché quello che conta è battere forte le suole sull’erba, alzarsi e ridiscendere. I passi dei bambini. Quelli che farebbero infuriare il più preciso dei contapassi.

10, 100, 1000 passi. Dal parco Castelli al fiume Mella. Passi che dimenticano l’odore del verde, attirati dall’umido dell’acqua. Attraversano in fretta marciapiedi, calpestano strisce pedonali, desiderosi di non essere più passi. E di scendere nella stazione della metropolitana di Casazza. Passi abitudinari che si trascinano verso il cimitero. Che si destano alle sirene della caserma dei pompieri. Che si specchiano nelle carrozzerie delle auto in fila nelle ore di punta in via Oberdan.

10, 100, 1000 passi. Dal fiume Mella a via Milano. Dai passi lunghi e fluidi che accompagnano l’acqua del fiume a quelli che si perdono nel traffico. Ostacolati dai semafori in via Attilio Franchi. Diretti verso il centro della città. Che decidono di fare una sosta e sporcarsi le suole con la ghiaia di campo Marte. E ritornare sulla strada principale, in via Tartaglia. Per poi deviare subito, intrufolandosi in vie più strette. E trovare scorciatoie o allungare il percorso. Scoprendo un po’ di poesia in via Leopardi, via Parini, via Manzoni.

10, 100, 1000 passi da via Milano a via Lamarmora. Passi incerti che osservano la bocca aperta sul centro ma ripiegano verso destra. Verso i marciapiedi larghi di via XX Settembre a cercare scampoli d’ombra in estate. Ad annegare tra le foglie in autunno. Passi che si alzano su un cavalcavia che guarda lontano. E che s’immergono nella città nuova, fatta di lavoro e di palazzi che solleticano il cielo.

10, 100, 1000 passi da via Lamarmora a viale Venezia. Passi che si nascondono in sottopassaggi, che si arrestano in attesa dei diritti della sbarra di un passaggio a livello. Riprendendo il loro cammino, mescolandosi alle vetrine dei negozi di via Cremona. A porte che si  aprono. A porte ormai chiuse.

10, 100, 1000 passi. Da viale Venezia alla Strada del Soccorso. Passi che si biforcano. Quelli desiderosi di arrivare, che scelgono via Brigada Avogadro, rotella di liquirizia ai piedi della statua di Arnaldo. Quelli che si prendono il loro tempo. E si calano nel passato della città. Che passano per via Musei e s’inerpicano per vicolo S. Urbano fino a via Langer. Per ritrovarsi tutti lì, in cima al castello, nel piazzale della locomotiva. E scomparire, calpestandosi d’estate e d’inverno, in un cunicolo petroso.

10, 100, 1000 passi. Dalla Strada del Soccorso, giù, fino a piazza Loggia. Passi che hanno conosciuto dall’alto le tegole rosse e i campanili della città e, inciampando nei sassi, ridiscendono a capofitto nel ventre della città. E attraversano placidi il buio della galleria. Per riemergere, assaggiando fugaci, i sanpietrini di via Mazzini. Ed impossessarsi spavaldi del centro della strada in Corso Zanardelli. E, infine, tornare da dove erano partiti. (Occupando le geometrie di piazza Vittoria con passi ampi. E insieme rotti e fratti. Quelli degli adolescenti che si guardano, guardandosi sullo schermo di un cellulare).

E le tue scarpe quale, quante città disegnano? 10, 100, 1000 passi che non si possono contare. Passi ammutinati. Liberi dai contapassi.

Balconi parlanti

C’è chi ama scoprire le città dall’alto. Con la testa incollata al finestrino dell’aereo, a capofitto tra le nuvole che si diradano, le orecchie che si tappano per la discesa, e la città che lentamente affiora. Cercando, di giorno, di vederne il nascere come in una cartolina: la Tokyo Tower, il Big Ben, le guglie del Cremlino, il ponte di Brooklyn. Cercando, di notte, di decifrare la forma di quella grande macchia luminosa che appare sotto gli occhi, dove non esistono asfalto, acciaio, carne, acqua, vetro, alberi ma solo i colori dell’elettricità. O con i piedi ben piantati a terra, ma dall’alto di una cattedrale, di una torre, da un un braccialetto immerso nel cielo, dai torrioni di un castello su un colle.

L’avrete capito. Io le città preferisco conoscerle dal basso. Seguendo i suoni delle porte o infilandomi in cortili nascosti. Quando sono avvolto in un vicolo, in una piazza, quando sono seduto ad un bar o sono in attesa di un autobus, allora guardo in alto. E li vedo comparire rassicuranti. I balconi. Le mie bussole personali.

I balconi mi piacciono perché si offrono. Si spingono verso l’esterno, verso il mondo, indirizzano lo sguardo e regalano un appiglio sicuro.

Quando in una città mi sento solo, guardo un balcone. Se ci vedo una donna che guarda verso il basso mi sento meno solo. Se il balcone è addirittura una terrazza, di quelle ampie, dove la sera quando c’è bel tempo si mangia fuori e sembra di essere in vacanza, divento anche allegro.

I balconi sono estroversi. E parlano. Difficilmente un balcone rimane in silenzio. Un balcone parla della vita della città. Perché sente la città sul suo cemento, sulla sua pietra, sul ferro della sua ringhiera, sui mattoni di coccio del suo pavimento. I balconi raccontano il presente della città, la osservano e la conoscono quando è febbricitante di sole, quando è invasa dalla nebbia, quando è spazzata dal vento, quando  è luccicante di brina.

I balconi parlano delle piazze, di piazza Loggia, piazza del Duomo, piazza Vittoria, dei loro colori, dei loro suoni, di un’estate piena di musica, di chi sosta, di chi cammina, di chi manifesta; parlano dei viali che segnano il perimetro del centro, di via Tartaglia, di via dei Mille, di via XX Settembre, assonnati nelle domeniche estive, sferzati dai clacson della automobili durante un qualsiasi giorno d’inverno; parlano delle traiettorie saltellanti delle ruote dei ciclisti sui sanpietrini di via Trieste e di corso Magenta; parlano le voci del mondo che si alzano da via San Faustino e da via delle Battaglie; parlano, una sopra l’altro, del movimento dei corpi delle persone negli uffici di vetro a Brescia Due.

I balconi sono estroversi. E parlano. Della vita delle persone. E riescono a nascondere poco. (Anche quelli interni o quelli con alte fioriere che impediscono di guardare dentro le case).

I balconi parlano delle nostre abitudini, dei nostri gusti, dei nostri difetti. Dicono se amiamo le piante e i fiori; se siamo ordinati o accumulatori, se abbiamo figli, o se ci occupiamo dei figli dei nostri figli.

Sui balconi si muovono voci, corpi, emozioni. Sui balconi si parla: da un balcone all’altro, con la voce che rimbalza gommosa come una pallina da tennis; si parla verso il basso con la voce che può riempire un’intera strada; si parla al telefono con la voce che si perde in racconti lunghi come un fiume. Sui balconi si cammina, si litiga, si ride, si balla, si piange, si gioca, si ascolta la musica, si osserva in silenzio.

Con gioia, tristezza, ad alta voce, sommessamente, rabbiosamente, con noia, risa, grida, gentilmente, tenacemente: come parla il tuo balcone?

 

Porta dopo porta

Non scrivo più guide di viaggio, ma quando qualcuno mi chiede il modo migliore per scoprire una nuova città, rispondo quasi sempre allo stesso modo: “Dalle sue porte”. Se si è in procinto di partire per Roma, suggerirò qualche porta delle mura Serviane, o delle mura Aureliane, come l’Angelica o la Pertusa.
Capita che questi miei consigli non siano proprio apprezzati, di ricevere sguardi poco convinti, o risposte un po’ piccate da qualche studioso di storia romana che mi dice che quelle porte  non ci sono più o sono state murate. Io ribatto che non è un problema, una porta svolge il suo ruolo, sia che sia murata o demolita, sia che si alzi maestosa nei suoi 38  metri di altezza come la porta Wumen della Città Proibita.

Le porte sono degli oggetti curiosi: parlano i tempi della città, parlano il suo passato, il suo presente e il suo futuro. Le porte sono oggetti curiosi perché sono contraddittorie: sono attraversate dal passaggio, addirittura lo sollecitano, ma possono improvvisamente chiudersi e diventare barriere.

Le porte hanno dato la forma alla città, ne hanno segnato i contorni, ne hanno contrassegnato il nome. Fino a quando sono diventate un ostacolo da abbattere, quando la città moderna ha costruito la sua identità mangiando sempre più velocemente lo spazio che la circondava.

Ma le porte sono ostinate e mantengono la loro forza, anche se dello spazio che hanno abitato rimane solo il nome. Da un passato che torna indietro al Medioevo, emergono Porta Garibaldi, Porta Cremona, Porta Torrelunga, abbattute a fine Ottocento, s’allargano diventando piazzali e dando vita a linee di movimenti che s’incrociano non più in flusso ordinato tra chi entra ed esce, ma in un incrocio di veicoli e persone che animano lo spazio in ogni direzione.

Le porte sono più resistenti di quanto si possa immaginare, anche se risalgono al tempo del primo decumano. Svettano seminascoste tra le tegole rosse dei tetti del centro storico, come Porta Paganora, ora quieto passaggio pedonale. Ma ugualmente portano i segni del loro passato, come i cardini ancora presenti sotto il vòlto di Porta Bruciata. O le loro tracce, ormai invisibili, possono riemergere. Come i resti di Porta Pile, eretta nel XIII secolo, ricostruita come arco neoclassico nell’Ottocento, riaffiorati  durante gli scavi per la metropolitana.

E poi ci sono le porte che costruiscono edificio dopo edificio la città. Ci sono le porte-simbolo, quelle che, come querce secolari, accompagnano la vita della città, quelle della Loggia, quelle del Castello. Ci sono le porte dello spirito, che incarnano il passaggio dal peccato alla grazia, Porte Sante.

Ci sono le porte che raccontano il tempo della nostra quotidianità. Quelle che tutti i giorni apriamo, attraversiamo, chiudiamo, guardiamo, non vediamo. Sono le porte dei condomini da cui usciamo veloci; sono le porte in cui ci soffermiamo a specchiarci dentro; sono le porte che si aprono a metà facendo intravvedere giardini celati; sono le porte esuberanti, quelle che vogliono essere guardate, che si colorano e si travestono, porte d’artista; sono le porte laccate di blu o di rosso, che sembrano uscite da una commedia inglese ambientata in ricco quartiere di Londra, quelle in cui sogniamo di poter entrare; sono le porte tristi, quelle che sono diventate dei semplici muri, perché parte di edifici abbandonati e che sperano di essere riaperte; sono le porte che non vediamo ma che sentiamo, che non sapremmo descrivere, ma che sbattono meccaniche, sono accompagnate dolcemente, cigolano rugginose, che non sono mai stanche di aprirsi e chiudersi. Sinfonie di porte.

Edificio dopo edificio, casa dopo casa, legno dopo legno, ferro dopo ferro, vetro dopo vetro, colore dopo colore, numero civico dopo numero civico, campanello dopo campanello, maniglia dopo maniglia, porta dopo porta. E la tua porta? Qual è l’ultima porta che hai aperto, chiuso, attraversato, ascoltato?

 

 

Luci della città

Non ho mai avuto paura del buio. Ma il buio non mi è mai piaciuto. La prima volta che ho incontrato un blackout avevo otto anni. Era estate e di colpo il lampadario in cucina, con un rumore sordo, si spense e mi lasciò con il cucchiaio di minestra sollevato in alto. Mio padre mi disse di venire sul balcone per vedere le stelle perché: “Sono più grandi e luminose”. E, in effetti, così era. Non erano grandi come quelle dipinte da Van Gogh. Ma, sopra la mia testa, apparivano più chiare e nitide. Vincitrici per qualche tempo della barriera della corrente elettrica.

Ma non era la mia città. Non c’erano più le geometrie che conoscevo. Era un’altra città. Era un nero indistinto privo di confini e di orli. Come quando si usano gli acquarelli e i contorni diventano larghi e il colore invade la carta porosa.

Non ho mai avuto paura del buio. Ma il buio non mi è mai piaciuto. Forse  per questo ho sempre pensato che la più bella scena iniziale di un film è  quella di Manhattan, con la sua ode alla città puntellata dal suono del clarinetto e dalle insegne luminose che si accendono e si spengono. Perché la luce artificiale ha inventato una nuova città, ridefinendo il dentro e il fuori delle cose.

La luce artificiale è invadente. A dicembre addirittura egocentrica. Avvolge con rivoli azzurri gli edifici che circondano piazza Loggia. Si abbarbica, con fili che brillano impazziti dei colori primari, ai muri delle villette in via Monte Nero e in via Rossetti, o difendendo qualche finestra all’ultimo piano di un condominio del quartiere Perlasca. Anche degli alberi si appropria, in via XX Settembre e in piazza del Vescovato. Fino a sostituirne le foglie, fino a oscurare le stelle.

La luce artificiale è timida. Cerca di bucare con intere file di lampioni la barriera di nebbia che a novembre riempie via Tartaglia, ottenendo solo fuochi appannati.  E ha poca fiducia in sé, quando d’estate il rosso e il verde dei semafori paiono accecati e incapaci di competere con la luce del sole e ci si chiede, in via Leonardo da Vinci, se si sta attraversando la strada con il colore giusto.

Dal basso, dalla strada, la luce artificiale mette delle etichette. Vecchie e nuove, in perenne sostituzione, sfavillanti o a stento accese, le insegne dei negozi modellano via S. Faustino, Borgo Trento, Via Delle Battaglie, i portici X Giornate.

Dall’alto, dal castello, la luce artificiale dà forma alla storia, scolpendo la cupola verde rame del duomo e i mattoni in pietra della Torre della Pallata. Dà forma al presente, marcando il rosso delle tegole dei tetti del centro storico che cedono il posto  al  vetro e al ferro della periferia.

La luce artificiale fa trapelare il quotidiano. Perché  porta dentro le case. In via Mazzini, via Dante, via Crocefissa di Rose, via Masaccio, luci chiare, bianche, fredde, calde, gialle, rosse, dirette, velate fanno intravvedere frammenti di librerie, di lampadari, di tavoli, di televisioni, di sedie, di corpi. Frammenti di vita.

Non potrei immaginare una città senza luci e queste sono le luci della mia città. E le tue? Di quali luci brilla la tua città?

Il tempo dell’autunno

L’autunno è come un romanzo di Thomas Mann. È magniloquente, teatrale e destinato alla rovina. È come un’antica casata che progressivamente si sgretola e, nel giro di pochi mesi, perde tutto. L’autunno porta molte maschere per nascondere il proprio volto, ma basta un giorno di pioggia per perderle una a una.

La primavera, come ho già scritto, viaggia veloce ed arriva all’improvviso. L’estate e l’inverno sono simili, sono due stagioni sicure di sé: ricoprono ogni cosa, di verde, di vuoto, di sole, di ghiaccio. L’autunno si trasforma di continuo per nascondere la sua fragilità. Inizia all’insegna dei colori per poi dimenticarseli tutti. L’autunno è una stagione distratta, che lascia in giro pezzi di sé. L’autunno è in divenire. C’è sempre un prima e un dopo nell’autunno. E sono l’uno l’opposto dell’altro.

Prima c’è l’autunno variopinto che ancora ricorda i colori dell’estate. Anzi muta il verde dell’estate in un tessuto di colori caldi. Prima ci sono via Trento e via XX Settembre che camminano verso il centro storico, accompagnate da tronchi orgogliosi delle loro chiome incerte tra il rosso e il giallo. C’è via Veneto, scricchiolante di foglie che, alzandosi, disegnano origami di vento.

Prima c’è il “toc” sordo delle castagne che cadono sulle panchine (e in testa ai passanti) in piazza Tebaldo Brusato. Prima ci sono i giardini delle case in via Nazario Sauro e in via Massimo D’Azeglio, punteggiati dell’arancio dell’alchechengi e del color mattone dei cachi maturi.

Prima ci sono i fiori autunnali, che accompagnano i campi attorno a San Polo, e i tramonti che colorano di rosa il cemento degli edifici. Prima ci sono i cieli mossi, con grosse nuvole che nascondono il sole, che coprono di luce e di ombra i sentieri di pietra in castello.

Dopo ci sarà la nebbia, che stringe in un anello di platino il centro storico e accarezza le sponde brinate del torrente Garza. Dopo ci sarà la ghiaia gelata dell’Arena del Castello, che, sotto le suole, lentamente si va frantumando.

Dopo ci saranno i bambini, avvolti in cappotti e cuffie calate sulle orecchie, che cercano di liberarsi di sciarpe troppo strette e, goffamente, di arrivare in cima agli scivoli del parco Castelli.

Dopo ci saranno gli alberi, nudi nelle loro architetture attorcigliate, che sfilano lungo viale Venezia, immergendosi in un cielo grigio e fermo. Dopo ci sarà il treno della metropolitana che bucherà un pomeriggio che diventa rapidamente sera. Dopo ci saranno notti scure che si aprono su albe cangianti come opali, già inclini a salutare l’inverno.

Prima e dopo: quale tempo racconta il tuo autunno?

Storie di piazze in movimento

La prima volta che ho visto Berlino pioveva e Potsdamer Platz era una distesa di terriccio marrone. Un bambino piangeva inconsolabile perché era caduto sbucciandosi le ginocchia. Quel luogo, quella piazza, il muro in quella piazza ormai non ci sono più. Si trovano solo nei nitrati d’argento del ‘Cielo sopra Berlino’.

Le piazze sono i luoghi migliori dove scoprire i cambiamenti di una città. Perché le piazze non hanno confini anche quando gli edifici ne delimitano da sempre la forma.

Nelle piazze si muove la storia. Anche se la memoria di un evento può segnare indelebilmente la vita di una piazza. E un giorno piovoso, un 28 maggio e un anno, il 1974, possono cambiare per sempre il significato e la vita di una piazza.

Una piazza osserva le persone che l’attraversano, che sostano, parlano, ridono, s’arrabbiano, lavorano. Una piazza osserva un cameriere che porta un caffè, si perde ad annusare la fragranza delle spezie di una bancarella, sente sul proprio cemento lo scivolare impertinente di uno skateboard.

Una piazza osserva le persone ma continua a guardare dritta davanti a sé. Verso delle colonne che da secoli s’immergono nel cielo. Una piazza guarda davanti a sé per guardare il proprio passato antico. Come piazza del Foro.

Una piazza può cambiare insieme agli alberi che la circondano. D’estate può avere in testa un cappello verde, in autunno un tappeto giallo ai piedi, in inverno mostrare la sua spoglia fragilità. Come piazza Tebaldo Brusato.

Una piazza può farsi anche vezzeggiativo e diventare piazzetta. Aprirsi dopo un portico e chiudersi come fosse un cortile. Come piazzetta Bruno Boni. Può essere un punto di partenza ai piedi di una salita per inerpicarsi verso un castello. Come piazzetta Tito Speri. Oppure un buco che nasce all’improvviso tra i vicoli e l’ombra dei vecchi muri di una chiesa. Come piazzetta San Giorgio.

Una piazza può prendere vita ritagliandosi tra edifici di vetro e ferro. Appena uscita dal plastico di uno studio d’architettura. Come piazza Monsignor Almici.

Una piazza è anche un luogo incerto che nasce tra incroci stradali e che diventa piazzale. Dove c’è un incontro tra i corpi delle persone e i veicoli in movimento, dove la forma dello spazio si delinea tra la frenata di un’auto, la sosta di un autobus e il guizzo veloce di una bicicletta. Come in piazzale Cesare Battisti.

Una piazza può non esserlo ancora. Ma essere in divenire. Sono gli spazi che abitano le nuove periferie. Dove la piazza crescerà insieme agli alberi appena piantati e sotto le scarpe dei bambini che non sanno ancora camminare. Come a Sanpolino.

Le piazze si muovono e non stanno ferme. Cambiamo nome, sono piazze, piazzette, piazzali, piazze non ancora nate. Come si muove la tua piazza?

Storie di cortili sparsi

I cortili sono esigenti. Vanno scoperti. Ai cortili non piace comparire e per questo mi piacciono particolarmente. Mi piacciono i posti che si nascondono. Mi piacciono le città che si nascondono. (Ecco perché, e so che non dovrei dirlo, non ho mai amato Parigi. Parigi è troppo sfrontata e fiera della sua bellezza in tutte le stagioni).

I cortili raccontano sempre delle storie. Quando si scopre un cortile è come guardare dentro una finestra aperta. È un mondo recintato che racconta la sua storia. E se si decide di varcarne la soglia bisogna prestare attenzione: i cortili sono invadenti, tendono a farti partecipare alla loro storia per poi non fartene più uscire, come se si entrasse in qualche film di Miyazaki.

Mi piacciono tutti i tipi di cortile perché tutti raccontano storie. Storie diverse.

Mi piacciono i cortili interni, quelli in cui ci s’imbatte per caso girando il centro storico. Quelli che fanno capolino da portoni solenni quando la primavera comincia ad affacciarsi. Quelli che racchiudono l’imponenza di una statua, la magnificenza di un roseto o l’invasione verde, meticolosa e ordinata dell’edera. Quelli che si possono solo immaginare, serrati da qualche cancello. Quelli che si trovano in via Cattaneo, in via Musei, in via Pace o in Contrada delle Cossere.

Mi piacciono i cortili piccoli. Quelli che nascondono nient’altro che un rettangolo bagnato da un’ombra fresca e una bicicletta appoggiata al muro. Mi piacciono i cortili che fanno fare il giro del mondo rimanendo fermi. Quelli che trovi inseguendo percorsi di voci e di odori. Mi piacciono i cortili di via Capriolo, via Odorici e Contrada del Carmine. Quelli di Contrada Santa Croce e Borgo Trento. Quelli che non riescono a stare chiusi.

Mi piacciono anche i grandi cortili, quelli aperti. Quelli di cemento, di asfalto o in ghiaia. Quelli che stanno ai piedi degli edifici alti. Quelli che si trovano in via Rocca D’Anfo. Quelli in cui crescono i bambini. Quelli che si trovano nelle case in via Lamarmora. In via Montello. Alla Rotonda Montiglio. Quelli dove le generazioni crescono insieme per un breve periodo di tempo, che sembra lunghissimo ma che viene dimenticato presto. Quelli dove si trascorrono le giornate estive, riparandosi tra gli scampoli di ombra dei palazzi.

Cortili interni, cortili piccoli, cortili grandi. Cortili sparsi.
E i tuoi cortili? Quale storia raccontano i tuoi cortili sparsi?

Se un giorno in primavera un viaggiatore…

La primavera viaggia veloce. Più veloce degli aerei, dei treni e delle macchine. La primavera viaggia veloce e c’inganna sempre.

Ho sempre trovato violenta la primavera. Non ci si accorge mai del suo arrivo. È improvvisa e violenta. Come è violento il verde tenero e pieno di vita delle prime gemme degli alberi.

Se devo iniziare a scrivere un atlante di viaggio allora dovrò iniziare dall’inizio anche se gli inizi non mi piacciono. Generalmente iniziavo a scrivere dalla fine. È più semplice. Hai un ancoraggio a cui tornare. Sai che il viaggio è concluso.

Ma ora che ho preso la mia decisione, l’inizio non poteva che prenderselo la primavera. La primavera s’intrufola in città. Il verde lacera con forza la pietra dei vicoli stretti del centro storico: vicolo Lungo, vicolo S. Clemente, vicolo Fontanone. Compare sui muri di cinta dei palazzi, colorandosi di puntini lilla e bianchi. Contorna le radici degli alberi che gonfiano i marciapiedi sui grandi viali trafficati. Gli alberi cambiano forma, le geometrie intrecciate dei rami spogli cominciano ad essere bucate da piccole foglie decise ad abitare le fronde fino ad autunno inoltrato.

La primavera in città arriva a fazzoletti che diventano improvvisamente delle verdi lenzuola. Profumate e ronzanti. Come diventerà il vecchio faggio nel parco di Largo Torrelunga. Sta aggiustando la sua chioma intricata per assaggiare il violento sole estivo e le pesanti gocce di un temporale d’agosto.

La primavera arriva in città e intacca anche gli alberi che non sono mai abbandonati dal verde. Il grande pino che in piazzale Arnaldo apre la salita verso il Castello, stende sicuro i suoi rami. Avvolto da una folta edera, sembra essersi dimenticato il peso della neve invernale.

La primavera è feroce e racconta il nuovo. Perciò inizierò il mio atlante in primavera. Sotto i buoni auspici della clorofilla che ricomincia a colorare le foglie.
Dalla primavera non si può sfuggire. Perché racconta storie. Devo riempire un atlante e iniziare un viaggio. In città. In primavera. Un viaggio per la primavera in città.

Qual è la vostra primavera in città? Già potrebbe essere l’inizio del mio atlante, se un giorno in primavera un viaggiatore…